Corporativisti e poco professionali
di SKA su Antimafia il 23 Agosto 2008
In questi giorni è balzato fuori dal cilindro berlusconiano il nome di Giovanni Falcone come “eroe” ed “esempio da seguire”. Falcone è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Berlusconi ha avuto decennali rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano e continua ad averne con Marcello Dell’Utri attualmente condannato dal Tribunale di Palermo per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Punto.
Berlusconi e i berluscones dicono che Falcone voleva la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero, per cui bisogna seguire quella linea. Chiaramente è falso. Non vorrei tralasciare il fatto che la così tanto invocata “separazione” era contenuta nel “Piano di Rinascita democratica” della Loggia P2 al punto in cui si invocava la:
Riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile
Che le parole di Falcone siano state completamente inventate lo dice chiaramente la sorella in questa intervista al Corriere, ma lo spiega compiutamente il magistrato stesso in uno scritto intitolato “Siamo corporativisti e poco professionali” pubblicato nel Febbraio 2001 da Antimafiaduemila su concessione della “Fondazione Giovanni e Francesca Falcone” e che ripubblico integralmente dopo il salto. Si parla si carriere separate all’interno della magistratura, è vero, ma non della separazione dei poteri. Così come si tiene fermo il punto sull’indipendenza dalla politica dell’azione della magistratura. Vi auguro buona lettura, anche se so che non lo farete.
In un documento del 13 luglio 1988, la giunta esecutiva nazionale di Unicost, nel riconoscere che l’esercizio della giurisdizione attraversa nel Paese un periodo di straordinaria difficoltà, afferma che il solco profondo creatosi tra magistratura e società civile ha determinato le condizioni per l’esito del referendum sulla responsabilità del giudice, in cui gli elettori, “indipendentemente dalle diverse intenzioni dei promotori”, hanno trovato l’occasione per esprimere la loro protesta per il pessimo funzionamento del servizio-giustizia. Viene ribadita in quel documento, dunque, la tesi che, attraverso il referendum, alcuni settori politici hanno strumentalizzato lo stato di insoddisfazione esistente nel Paese, per far apparire la magistratura come unica responsabile delle disfunzioni della giustizia.
Se ci si sforza, però, di analizzare la questione con obiettività, e se si abbandona per un attimo quello stato d’animo che ha indotto non pochi ad affermare che la magistratura è afflitta da una “sindrome permanente da stato di assedio”, non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza margini di equivoco, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell’elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità, e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati.
Ora, non vi è dubbio che le cause profonde della crisi della giurisdizione sono molteplici e, in buona parte, non addebitabili alla magistratura, investendo lo stesso modello di sviluppo politico e l’assetto complessivo dei pubblici poteri in Italia; ma ciò non sembra una buona ragione per non tenere conto del chiarissimo risultato referendario, eludendo ulteriormente i problemi e continuando ad addossare al potere politico tutte le responsabilità della crisi, senza nemmeno tentare di individuare e di fronteggiare quelle che sono direttamente riferibili alla magistratura. Occorre, dunque, interrogarsi sul ruolo del giudice nella società attuale con animo sgombro da vecchi preconcetti ed evitando, soprattutto, di crearne nuovi. E frutto di un nuovo preconcetto mi sembra l’affermazione di un collega che io stimo moltissimo (Elvio Fassone), secondo cui “le nuove spiagge – professionalità, terzietà – lasciano egualmente scontenti; quella, la professionalità, si è logorata prima di venire chiarita (al di là delle connotazioni più ovvie, che non vanno oltre alla competenza tecnica e alla serietà operativa…); la seconda, la terzietà, ha insegnato che essere Tertius è bello quando Primus e Secundus giocano alla pari, non quando uno stritola l’altro”.
A me sembra, invece, che per evitare che il valore della professionalità possa essere ritenuto ormai logorato prima ancora di essere chiarito, sia necessario un fecondo dibattito per individuare quei contenuti che una società civile, sempre più allarmata dalle disfunzioni della giurisdizione, giustamente pretende. E, in proposito, si potrebbe cominciare dal rilievo che le connotazioni ovvie del concetto di professionalità – e cioè la competenza tecnica e la serietà operativa – sono appunto quelle di cui, secondo un convincimento largamente diffuso nella società, la magistratura non è attualmente dotata in misura adeguata. E’ vero che, prima, i giudici non sbagliavano meno di adesso e che, per converso, la gravità e complessità dei compiti di cui attualmente è investita la magistratura è incomparabilmente maggiore del passato. Ma ciò significa non altro se non che proprio la professionalità in senso tecnico del giudice è quella di cui la società più acutamente avverte l’insufficienza. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo soddisfacente; il che riguarda direttamente gli attuali criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l’aggiornamento professionale ed i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti.
Una seria riflessione sui motivi dei queste disfunzioni – che tendono ad allontanare sempre più dalla magistratura il consenso sociale, favorendo così certe manovre dirette al depotenziamento del controllo della legalità – non può che partire dalla constatazione che si sono attutite quelle spinte ideali che, un tempo, avevano reso l’azione della magistratura centro di propulsione essenziale per l’effettiva applicazione dei valori solidaristici indicati dalla Costituzione. Nei tempi, ormai non più recenti, in cui l’Associazione nazionale dei magistrati conduceva indimenticabili battaglie per eliminare dall’ordinamento giudiziario forme di progressione in carriera, che si risolvevano in un pesante condizionamento, autoritario e verticistico, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, era ben chiaro a tutti che la lotta non era diretta a creare inammissibili privilegi, ma a consentire l’attuazione nell’ordinamento dei valori di uguaglianza e di solidarietà sanciti dalla Costituzione.
Se questo panorama è radicalmente mutato e se i valori costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza sono in crisi, ciò dipende, a mio avviso, in misura non marginale anche dalla crisi che, ormai da tempo, investe l’Associazione dei giudici, rendendola sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi e sempre meno il luogo di difesa e di affermazione dei valori della giurisdizione nell’ordinamento democratico. E la crisi profonda dell’associazionismo dei magistrati ha pesantemente influito sulla stessa funzionalità delle istituzioni; le correnti dell’Associazione nazionale magistrati – anche se, per fortuna, non tutte in egual misura – si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura, e quella occupazione delle istituzioni da parte di partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all’organo di governo autonomo della magistratura; con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. La caccia esasperata e ricorrente al voto del singolo magistrato e la difesa corporativa della categoria sono divenute, in alcune correnti più delle altre, le attività più significative della vita associativa e, al di là di mere declamazioni di principio, nei fatti il dibattito ideologico è scaduto a livelli intollerabili.
Le conseguenze sono state di enorme portata ed hanno investito direttamente la stessa professionalità del giudice. Era inevitabile, infatti, che correlativamente al progressivo affievolirsi del dibattito culturale ed ideologico, tendesse a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato; e cioè del magistrato-burocrate, il quale, intimidito dagli attacchi esterni alla sua indipendenza ed indifeso per la sostanziale inerzia dei propri organismi rappresentativi si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell’anzianità senza demerito. Bisogna riconoscere che, in presenza di una situazione di sfascio della giustizia, è certamente comodo delegare ad altri le responsabilità derivanti da scelte impegnative, poiché, prima o poi, se si saranno sapute evitare le “grane” derivanti da casi giudiziari perigliosi, si riceverà il “premio” di un posto semidirettivo e, alla fine, probabilmente, anche del tanto sospirato incarico direttivo.
Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e ai criteri passati di accertamento della professionalità, certamente censurabili, ne sono stati sostituiti altri del tutto insoddisfacenti. I criteri di accertamento negativo della professionalità non hanno funzionato, se non in casi insignificanti, e l’affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità ed alla buona volontà del singolo. Si aggiunga che i trasferimenti, le assegnazioni di funzioni e le nomine ai posti direttivi sono effettuati con riferimento assolutamente prevalente alle aspettative del magistrato, e solo in minima parte tengono conto delle sue specifiche attitudini e della sua esperienza professionale; non c’è da sorprendersi, quindi, se l’organizzazione degli uffici e le esigenze di razionalizzazione del lavoro restano affidate, in modo del tutto casuale, alla buona volontà ed alle eventuali capacità organizzative del dirigente dell’ufficio, che, ovviamente, non necessariamente coincidono con la sua preparazione professionale.
Ai deprecati fenomeni della carriera e del carrierismo sono subentrate carriere di altro tipo, in funzione di controllo dell’elettorato, con la conseguenza che, anziché privilegiare le qualità professionali e l’attitudine specifica a svolgere determinate funzioni, si tende a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Non c’è da meravigliasi, dunque, se la “legittimazione consensuale” della magistratura da parte del corpo sociale sia venuta progressivamente meno, in presenza di atti e comportamenti che appaiono segno inequivoco di quella “separatezza” della magistratura che, isolandola, l’ha esposta sempre più ad attacchi diretti ad indebolirne l’autonomia e l’indipendenza. Valori questo, che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa.
In questo clima, la delega di rappresentatività a coloro, sempre gli stessi, che saranno in grado di assicurare queste prospettive rassicuranti, è un passaggio obbligato e naturale; e, di più, è favorito in tutti i modi da quei settori esterni alla magistratura che valutano questa figura di giudice-impiegato come funzionale a certi progetti politici, che non tengono in sufficiente considerazione il valore essenziale per la democrazia di un controllo di legalità efficace e rigoroso nei confronti di chiunque.
Questa analisi comincia a farsi strada in sede associativa. Nel richiamato documento del 13.7.88, la corrente di Unità per la Costituzione afferma: “Le correnti dell’Associazione devono saper superare le logiche di schieramento incrementando il confronto di opinioni ideali e culturali, non trasformandosi in apparati di potere che soffocano le voci dissenzienti, trasformano le assemblee in rituali formali e inutili, concentrano quasi tutto il loro impegno nei momenti elettorali, per condizionare totalmente la composizione degli organi rappresentativi, e utilizzano l’arma del clientelismo”.
Che fare, allora, per porre rimedio a questa situazione che, oltre a mortificare la professionalità, isterilisce l’azione della magistratura e la rende non all’altezza dei gravosi compiti che la competono? Mi sembra da condividere la tesi che la crisi della giurisdizione sia direttamente collegabile alla attuale crisi della politica, e cioè alla incapacità della stessa di dominare una realtà sociale complessa, contraddittoria ed in continua e spesso tumultuosa trasformazione. Ciò determina inevitabilmente, come è stato autorevolmente osservato, la crisi del diritto, e cioè dello stesso concetto di norma giuridica come espressione fondamentale dell’azione statale, e la sua trasformazione in strumento provvisorio ed incompleto di soluzione dei conflitti, che dovranno poi trovare adeguata e concreta soluzione in sede applicativa.
La scomparsa di una domanda di giustizia omogenea e compatta e la sua trasformazione in una serie di istanze, spesso contraddittorie e confliggenti e, tuttavia, parimenti tutelate dalla Costituzione (ad esempio, tutela dello sviluppo economico e tutela dell’ambiente; tutela dei lavoratori e tutela della libertà di circolazione), determina necessariamente la trasformazione del ruolo del giudice in garante, puntuale e rigoroso, dei valori solidaristici ed emancipatori della Costituzione. In questa fedeltà alla Costituzione consiste, a mio avviso, al di là delle specifiche professionalità del giudice la vera essenza della professionalità; professionalità che presuppone e si avvale della competenza tecnica, ma che non si esaurisce in essa, e che comporta un continuo e faticoso controllo della legalità, alla luce dei principi costituzionali.
L’affermazione ricorrente di taluni settori della politica, circa la ormai completa attuazione della Costituzione, deve essere, dunque, nettamente respinta, i valori costituzionali sono quotidianamente posti in discussione, e non è senza significato che queste affermazioni di segno opposto siano divenute più insistenti in un periodo storico in cui è più acuta l’insofferenza di certi settori dell’economia e della politica avverso il controllo di legalità, che, pur tra mille contraddizioni ed inesperienze, è portato avanti dalla asfittica macchina giudiziaria. Se tutto ciò è vero, l’azione puramente difensiva dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, che corre il rischio di scadere in una difesa di privilegi inammissibili per uno Stato democratico, va trasformata in attività propulsiva e dinamica, per riaffermare in concreto il suo valore di strumento indispensabile per la tutela della legalità.
E la professionalità del giudice in questa ottica, costituisce problema fondamentale. Occorre rendersi conto, infatti, che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura – come è dimostrato da quanto sta accadendo in questi giorni – rischia di essere gravemente compromessa se l’azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato – solo perché ha vinto il concorso di ammissione in carriera – come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una sorta di superuomo infallibile e incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Consiglio superiore della magistratura ed i Consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei valori della professionalità dei magistrati verso il basso.
E qui non si tratta di auspicare il ritorno di anacronistici criteri elitari per la formazione professionale della magistratura, ma, molto più semplicemente ed umilmente, riconoscere che, attualmente, nel nostro Paese, in uno dei più difficili mestieri, quello del giudice, la formazione professionale è regolamentata in modo tale da non assicurare in modo efficiente il servizio-giustizia.
In qualsiasi azienda è un criterio addirittura elementare quello secondo cui il personale va adeguatamente selezionato, formato professionalmente e, quindi, destinato a quegli impieghi in cui le sue specifiche attitudini e professionalità possono essere maggiormente utili. Per quanto concerne il servizio-giustizia, invece, questi concetti spesso non vengono tenuti in adeguata considerazione; eppure, se vige anche nella materia il principio della adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini perseguiti, non si riesce a comprendere come si possa prescindere dalla idoneità professionale del personale, che è chiamato in concreto ad assicurare il controllo di legalità, nel modo più efficiente e, nel contempo, più rispettoso dei diritti del cittadino.
Al riguardo, un severissimo banco di prova sarà l’introduzione di quella autentica conquista di civiltà che è il nuovo codice di procedura penale. Si afferma, infatti, fondatamente, che la riforma avrà esito positivo se, oltre alle indispensabili strutture materiali,vi sarà il necessario adeguamento delle “strutture mentali” di coloro, principalmente magistrati ed avvocati, che sono chiamati a rendere realtà viva ed operante un modello di processo che appare coerente e convincente soprattutto sotto il profilo della tutela delle libertà del singolo, ma che rappresenta una svolta radicale rispetto ai principi ed alle prassi precedenti della giustizia penale. Per quanto concerne la magistratura, si respira il clima di preoccupazione e, nello stesso tempo, di eccitazione e di tensione morale caratteristico dei momenti più importanti della nostra giovane democrazia. Segno, questo, che, nonostante i guasti provocati dalla degenerazione della vita associativa e dagli attacchi indiscriminati contro di essa, la magistratura è ancora un corposano e autenticamente democratico. E sono sicuro che i magistrati faranno per intero il loro dovere per consentire alla riforma di avere completa e rapida attuazione.
Ma ciò non deve valere a sottovalutare che le strutture organizzative e la stessa formazione professionale dei magistrati necessitano urgentemente di un ripensamento e di una rielaborazione per renderle adeguate alla riforma. E, soprattutto, va tenuto ben presente che la nuova struttura del processo penale, di tipo dispositivo, imporrà sostanziali modifiche nella formazione professionale del pubblico ministero rispetto a quella del giudice. Si ha un bel dire quando si afferma che il nuovo processo penale italiano è un tertium genus rispetto ai modelli di tipo accusatorio ed inquisitorio, e che il nuovo pubblico ministero dovrà, comunque, ispirarsi alla deontologia e alle strutture mentali del magistrato. Se non si terrà conto, infatti, che la connotazione come parte del pubblico ministero e la sua maggiore incisività nella ricerca e nella formazione della prova richiedono inesorabilmente una sua specifica professionalità, che lo differenzia necessariamente dalla figura del giudice (di cui correlativamente è stata accentuata la terzietà), si correrà il rischio concreto di formare dei pubblici ministeri professionalmente poco idonei e, quindi, di non assicurare un efficace funzionamento della giustizia penale. Non si tratta di esprimere preferenze o timori per un pubblico ministero dipendente dall’esecutivo o per carriere separate all’interno della magistratura; anche se su questi temi ci si dovrà confrontare al più presto con mente scevra da preconcetti per elaborare e proporre le scelte ritenute più idonee. Si tratta, invece, di prendere atto responsabilmente che le attitudini ed i compiti specifici del pubblico ministero, richiesti dal nuovo modello di processo penale, comportano una sua specifica formazione professionale, che coincide solo in parte con quella del giudice e che anzi, in punti qualificanti, ne diverge nettamente.
Una prima significativa indicazione in questo ordine di idee è data dal nuovo testo dell’art. 190 dell’ordinamento giudiziario introdotto dal d.p.r. 22.9.1988 n.449, che, pur ribadendo la unificazione della magistratura nel concorso di ammissione, nel tirocinio e nel ruolo di anzianità, ne stabilisce la distinzione relativamente alle funzioni giudicanti e requirenti, e prevede che, per il passaggio di funzioni, occorre che il Consiglio superiore della magistratura, previo parere del Consiglio giudiziario, abbia accertatola sussistenza di attitudini alle nuove funzioni. Forse sarebbe stato meglio, a mio avviso, prevedere, fin dall’inizio, anche mantenendo ferma l’unicità del tirocinio, un meccanismo idoneo, nella scelta della sede, ad assicurare la copertura dei posti senza automatismi e sulla base delle accertate attitudini dei neomagistrati alle specifiche funzioni; ma, probabilmente, l’introduzione di una siffatta normativa avrebbe ecceduto i limiti della delega. E non si può negare che, attualmente, può essere problematico, in determinati casi, l’accertamento delle attitudini alle diverse funzioni. Ma è importante che finalmente si cominci a comprendere che il concetto di professionalità non è un criterio astratto, ma un principio che va verificato ed applicato in concreto, sulla base delle specifiche attitudini ed esperienze professionali del magistrato.
Qualcosa, dunque, comincia a muoversi nella direzione di una maggiore razionalità dell’organizzazione del servizio-giustizia e, com’era facile prevedere, data la situazione di stallo in cui versa la magistratura associata, l’iniziativa del potere politico non è stata affiancata da un’adeguata ed attenta elaborazione in sede associativa. Non ho notizia circa soddisfacenti ed adeguati dibattiti ed elaborazioni in sede associativa dei problemi della professionalità del giudice; ed è singolare che ciò avvenga in un momento in cui in sede legislativa si moltiplicano le iniziative che incidono in modo determinante sulla professionalità. E, al riguardo, mi sembra grave che l’Associazione nazionale magistrati si stia muovendo con notevole ritardo in ordine ad un disegno di legge, già approvato in sede referente dalla Camera dei deputati, con cui si introducono nuove norme sui consigli giudiziari, sulla temporaneità degli uffici direttivi e monocratici e sulla reversibilità delle funzioni; su ognuno di questi temi di estremo interesse per l’assetto e per la funzionalità della magistratura, sono state adottate soluzioni di notevole portata, che non hanno ancora ricevuto, per quanto è a mia conoscenza, una presa di posizione ufficiale dell’Associazione nazionale magistrati, né, tanto meno, sono state adeguatamente vagliate in sede associativa.
Pur essendo impossibile, in questa sede, un esame ex professo del disegno di legge in questione, mi sembra doveroso richiamare l’attenzione, anzitutto, sulla introduzione nei Consigli giudiziari dei membri laici e, cioè, di avvocati eletti dal foro di appartenenza, e sulla notevole espansione delle attribuzioni di questi organismi. In proposito, mi sembra doveroso di esprimere la mia convinta adesione a questa apertura ai contributi di una categoria, quella degli avvocati, che per la sua specifica professione è posta in grado di valutare, forse meglio di altri, i problemi locali della giustizia e di verificare la laboriosità e la capacità professionale dei giudici. Mi sembra, invece, che si debba nettamente dissentire dalle soluzioni adottate in tema di temporaneità degli incarichi semidirettivi e direttivi e di reversibilità delle funzioni.
Apparentemente, si è dato ingresso al principio della temporaneità degli incarichi direttivi, con ciò esaudendo istanze associative che, per vero, non mi sembra che siano state coltivate con eccessivo impegno né, tanto meno, adeguatamente elaborate. Senonché, il tipo di soluzione scelta, a mio avviso, costituisce l’ennesima conferma che nel nostro Paese nulla è più definitivo del provvisorio. E’ previsto, infatti (art. 20), che i titolari di incarichi direttivi durino in carica cinque anni, con la previsione del conferimento di un ulteriore incarico direttivo in sedi giudiziarie del medesimo o di altro distretto di Corte di appello; sono previste, inoltre, unzioni di collaborazione direttiva (gli attuali incarichi semidirettivi), conferite anch’esse per un termine quinquennale e parimenti rinnovabili per un ulteriore quinquennio (artt, 26 e 27). E così, fra incarichi di collaborazione direttiva ed incarichi direttivi veri e propri, il magistrato potrebbe svolgere funzioni, lato sensu, direttive, per un ventennio; considerato, pertanto, che ben difficilmente – dati gli attuali criteri adottati dal Consiglio superiore della magistratura – un magistrato può aspirare ad un incarico del genere prima dei cinquant’anni, non mi sembra che la situazione sia granché diversa rispetto a quella attuale.
Anzi, credo che le cose potrebbero ulteriormente aggravarsi: poiché, infatti, il disegno di legge non introduce alcun elemento di novità sulla valutazione delle attitudini all’esercizio di tali funzioni, ancora una volta potrebbero prevalere nel conferimento di tali incarichi criteri scarsamente riguardosi delle attitudini e, cioè, della specifica professionalità del candidato rispetto all’incarico da ricoprire. Se si ritiene veramente che la temporaneità degli incarichi direttivi sia una scelta idonea per indurre spinte corporative ed assicurare una migliore funzionalità del servizio-giustizia, occorre che le scelte siano coerenti rispetto al fine e non perpetuino gli inconvenienti lamentati; e ciò, a mio avviso, è esattamente l’opposto di quanto avverrebbe sulla base della soluzione legislativa proposta.
Sconcertante, poi, mi sembra l’art. 29 del disegno di legge. Secondo tale articolo, il magistrato può chiedere l’assegnazione a diverse funzioni o il trasferimento ad altra sede, dopo un biennio dall’effettivo esercizio delle precedenti funzioni e, decorso un ulteriore quinquennio, il Consiglio superiore della magistratura, entro 180 giorni, deve assegnarlo ad altra funzione nella stessa sede e, ove ciò non sia possibile, trasferirlo ad altra sede. Non si discute che vi siano casi – meno infrequenti di quanto si possa pensare – di magistrati che trascorrono l’intera carriera, o comunque lunghissimi periodi, nella medesima sede, senza che possa farsi praticamente nulla per ovviare a situazioni che, spesso, producono conseguenze sgradevoli per la stessa immagine della amministrazione della giustizia. E non è parimenti discutibile, a mio avviso, che un ripensamento della inamovibilità dei giudici, al fine di garantire una più efficace e razionale utilizzazione del personale della magistratura, ormai si imponga. Ma la soluzione che si vuole introdurre è assolutamente in contrasto con qualsiasi esigenza di razionalizzazione del lavoro, mortifica la professionalità, costituisce grave gesto di sfiducia nella magistratura nel suo complesso ed è in contrasto con la norma, sopra richiamata, di cui all’art. 190 dell’ordinamento giudiziario.
Ancora una volta, si sceglie l’adozione di misure automatiche, che penalizzano l’attività della stragrande maggioranza dei magistrati che svolgono il loro difficile lavoro con correttezza e con impegno, per non adottare misure coraggiose che, nel concreto, pongano fine a situazioni inaccettabili o servano ad una migliore funzionalità della giustizia. Mi sembra incredibile che una norma come quella di cui sopra non abbia ancora provocato la forte reazione della magistratura associata e che non siano stati ancora posti in luce, col necessario risalto, i gravissimi pericoli, specie in vista dell’applicazione del nuovo codice di rito penale, per l’aggravamento delle disfunzioni della giustizia. Con una norma siffatta – che, per quanto mi risulta, sarebbe unica nel suo genere per gli impiegati civili dello Stato – ogni seria programmazione del lavoro giudiziario verrebbe compromessa; e verrebbero definitivamente mortificate quelle esigenze di specifica professionalità che, a parole, tutti affermano di volere perseguire. Il Consiglio superiore della magistratura non sarebbe certamente in grado di far altro che occuparsi dei trasferimenti e delle assegnazioni di funzioni, e le spinte corporative troverebbero ulteriore linfa cui attingere.
Ecco, a mio giudizio, un chiarissimo esempio di come certe riforme, in nome di principi astrattamente condivisibili, se non adeguatamente vagliate, possono produrre danni gravissimi; ed ecco, altresì, la conferma della scarsa incisività dell’Associazione dei magistrati che, ripiegata su se stessa, non riesce ad elaborare idee e progetti concreti su cui confrontarsi in vista di riforme che rischiano di essere compiute nel peggiore dei modi. Occorre, dunque, che, partendo dal principio-guida che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono il necessario presupposto per una amministrazione della giustizia efficiente, ci si misuri, nel concreto, coi problemi esistenti, abbandonando sterili ed astratte posizioni di principio e, per converso, pretendendo il rispetto effettivo dell’indipendenza e dell’autonomia. Bisogna abbandonare principi irreali, come quello della onniscienza del giudice, e rendersi conto che, in una realtà complessa come quella attuale, solo la specializzazione del giudice può consentire di comprenderla e dominarla. Negare la specificità delle conoscenze e delle attitudini richieste per le varie funzioni del giudice, significa favorire la permanenza di situazioni di insoddisfacente professionalità che si risolvono nella attuale scarsa resa del servizio-giustizia. E ciò determinerebbe l’allargamento ulteriore del solco fra la magistratura e la società; e il pericolo, sempre più immanente, di soluzioni inevitabilmente lesive dell’indipendenza e dell’autonomia del giudice.
27 Agosto 2008 alle Ago 27, 08 | 12:42
Trovo sconcertante da parte di uno che si teneva un mafioso sopra il comodino farsi portavoce per i propri interessi nientemeno che Giovanni Falcone, quando lo stesso non ha mai sostenuto la tesi in questione: la propaganda c’è e si vede.
31 Agosto 2008 alle Ago 31, 08 | 22:02
Berlusconi che si ispira a Falcone: se fossi Licio Gelli un po’ sarei seccato.
Forse Berlusconi parla a sproposito non per colpa sua: deve essere una controindicazione del viagra.
Oppure il trapianto si è rivelata un’arma a doppio taglio e i suoi nuovi capelli si stanno impossessando di lui come accadde nelle stesse circostanze ad Homer Simpson.