L’appuntamento

di SKA su La dimanche des crabes il 10 Agosto 2008

Il giorno in cui incontrai Luca per poco non venivo investito da un’auto.

Neanche con troppa sorpresa scoprii che non era cambiato affatto.

Non alto, non basso.
Capelli castano comune.
Occhi castano comune, come scrivono sulla carta d’identità.
Ascolta la musica che passano Radio Deejay e RDS per risparmiare sui cd.
Non fa nessuno sport, ma guarda qualsiasi programma in qualsiasi rete televisiva che parli di calcio.
Ricordo che aveva come hobby gli scacchi contro il Pc.
Ah, e anche grattarsi di tanto in tanto le palle.
Il suo vestiario varia esclusivamente con il passare dal freddo al caldo e viceversa, per necessità.
Giubbino o giacca a vento color avana.
Maglione grigio topo, con zip, di quelli caldissimi del mercato.
Jeans multistagionale, chiaro.
Timberland castano comune. Il tocco di classe.

Ed eccolo lì, mentre per poco non ci lascio le penne, a farmi “ciao” con la mano.
“Ciao Andrea! Allora? Tutto a posto? E…”
“Sì, ok. I convenevoli un altro giorno. A che ora è la cosa?”
“Sarebbe alle 15, in Piazza Garibaldi…” fa lui, rosso in faccia e un po’ spiazzato.
Interruzione : non so voi, ma a me le domande di circostanza mettono in crisi.
“Allora?”. Allora cosa? Quando uno fa una domanda del genere, cosa si aspetta, che gli racconti la mia vita dall’ultima volta che ci siamo incontrati, riassunta in quel lasso di tempo in cui il tuo interlocutore tace prima di parlare di sé stesso?
O, per l’appunto, vuole un’ulteriore risposta di circostanza che pressappoco reciti “Io bene, tu?”, e poter così parlare di sé.
“Tutto bene?” “Tutto a posto?”. Tutto bene cosa? Potrebbe mai andare veramente tutto bene? E’ irreale, è inverosimile. Se così fosse sarei Dio e, per inciso, neanche esisterei.
Eppure continuiamo a chiedercelo a vicenda, come se prima o poi possa andare veramente, tutto bene.

Il giorno in cui ricevetti la telefonata di Luca ricordo, con scientifica sicurezza, che non stavo facendo un cazzo. O finta di far qualcosa.
In un primo momento restai di sasso, poi andando avanti con la giornata iniziai ad abituarmi alla cosa fino ad assorbirla completamente.
Per iniziare poi a provare un senso di noia e fastidio per quell’Appuntamento.

“Ancora sei lì?” dico a Luca accendendomi la prima sigaretta della giornata, con la chiave già infilata nella portiera.
Prima si va, prima finisce questa buffonata.
Tra l’altro noto, con un certo nervosismo, che in queste occasioni la macchina che si prende è sempre la mia. Che poi è quella più sfigata: zero-optional ed intossicata di sigarette.
Non che la cosa mi dispiaccia, soprattutto nel pensare Luca alla guida.
Ma mi fa girare comunque i coglioni.

Con Luca il modo migliore per evitare quegli imbarazzanti silenzi che si creano quando non si ha un bel niente da dire, è farlo parlare di donne e di calcio. E non sta più zitto.
Così puoi annuire compiaciuto per le sue conquiste amorose e per il 4-0 della Juve, e nel frattempo prenderti il lusso di pensare a tutt’altro.

Ad esempio penso che sono in macchina con uno che si è già laureato ed ora lavora nell’ufficio commercialistico del padre. Dal momento in cui si alza, fino al momento di tornare a dormire lui sa cosa deve fare. Lui sa cosa lo aspetta durante la giornata, senza troppe seghe mentali.
Ogni giorno casa-ufficio ed ufficio-casa, che poi sono 500 metri a piedi.
Ma lui prende lo scooterone.
Ed il fine settimana con una birra in mano nel solito baretto.
Tutto uguale, ma perlomeno lui sa già cosa lo aspetta.

E quindi penso a me.
Penso che do del coglione a lui, ma a me mancano ancora 4 o 5 esami per mandare affanculo quella facoltà. Penso che ancora vivo dentro casa dei miei, senza il becco di un quattrino. Penso che, però, sto lavorando per uno studio di grafica editoriale.
E così posso sentirmi in pari con la coscienza.

Penso che dovrei trovarmelo anche io un lavoro in ufficio e smetterla di pensare a cosa farò da grande. Con un pacco di scartoffie che sono storie di altre persone, aspetto il momento di avere l’idea che possa rendermi ricco e felice allo stesso momento.

Penso che ho ancora il demo del gruppo in cui suonavo e cantavo, con la speranza di sfondare nella musica. Poi tutti ti abbandonano, chi per un motivo chi per un altro, e tu rimani lì, come un cretino, a riascoltare per ore gli stessi pezzi ed immaginare di cantarli da sopra un palco.
Dopo c’è la fase in cui è tutta colpa dell’industria musicale, che come tale è vessata da interessi commerciali e perciò fa passare sempre le solite facce, i raccomandati e blablabla…

Penso ai quattordici anni (14) quando senti già che il Piccolo Regno ti sta stretto, che la gente con cui esci non la sopporti, eppure la sopporti lo stesso. Che a casa fai di tutto per rendere contenti gli altri tralasciando te stesso. Perché in fondo c’è tutta una vita davanti per pensare a sé stessi.
Poi, puntualmente, non succede.
Gli amici sono tali solo se sei in linea con il gruppo ed il Piccolo Regno rimane quello sputo di terra da cui non si scappa.
Così ti spieghi il perché del non capire quasi niente del mondo che ti vive attorno.

Penso al mio ideale, che è proprio come le mie tasche in questo momento.
Scribacchio per il puro piacere di farlo, e quindi per masochismo, su una decina di siti, webzine, piccoli giornali locali pieni di pubblicità di norcinerie, su giornali un po’ più grandi che invece sono pieni di pubblicità a questo o a quel partito, a questo o a quel candidato.
Il frutto di tutto questo arrovellamento linguistico finisce solitamente in sigarette ed alcol.
Che poi è sempre poco.

Arrivato alla traccia 8 di Lateralus dei Tool Luca sta ancora blaterando qualcosa su una ragazza con cui ha fatto sesso a tre in un motel. Ed io annuisco.
Su come sia riuscito a passare tra le braccia di tre o quattro donne nel giro di una serata in discoteca. Ed io annuisco.
Di come sia diventato il calcio attuale, incentrato sugli interessi economici e che se non la smettono non li rinnova mica gli abbonamenti allo stadio, al digitale terrestre e ai canali satellitari. Ed io annuisco.
Poi si ferma per chiedere di poter cambiare musica in macchina, che quella per lui è troppo “rumorosa”. Ed io mi incazzo.
Non è sceso dalla macchina solo perché in quel tratto di superstrada non v’erano aree di sosta.

E poi c’è Francesco ad aspettarci.

Francesco Maria, per la precisione, è un altro di quelli che nella vita non scegli, ti capitano.
Come una martellata su un dito o una pallonata nei coglioni.
L’ho conosciuto al primo anno di università, corso di Antropologia. Nelle narrative romanzesche, quelle in terza persona, lo avrebbero apostrofato con una lunga serie di aggettivi ed avverbi.
Per colorare con pastelli accesi la sua personalità stravagante.
Per dipingere di chiaroscuri la sua eccentricità.
Per intarsiare il suo parlare morbido sul legno ambrato.
Invece è gay.

Durante il primo semestre scoprii che gli piaceva definirsi con tutti “finocchio”.
Se gli davano del frocio s’incazzava di brutto, ma finocchio no.
Mi è capitato di sentirlo in mensa, in segreteria, con gli amici.
Che autoironia, pensavo.
L’ho anche difeso, qualche volta, usando gli argomenti del politically-correct.
Gay ed omosessuale sono i termini corretti, tutti gli altri sono offensivi.

Poi ho scoperto che Finocchio è il suo cognome.
Francesco Maria Finocchio. Non aggiungo altro.

Finocchio si distingue per la compostezza e la serietà.
Non è di quei gay che per pura invidia del sesso femminile fanno di tutto per avvicinarvisi il più possibile, facendone il verso, caricandolo di moine, di parlate striscianti e sguardi languidi.
Con lui si può parlare di omosessualità senza sentirsi in difetto. Senza stare attenti ad ogni parola fuori posto, con il rischio di passare per intolleranti o addirittura razzisti.
Come io non vado in giro dicendo di essere eterosessuale, lui fa lo stesso.
Come Luca, che non va mica in giro a dire di aver fatto sesso con una pecora.

Propone di fermarsi in un locale a bere qualcosa, prima di ripartire per il lungo viaggio.
Paga lui e non posso che accettare.

Mi si para davanti un tizio, di cui ignoro l’identità, che millanta di conoscermi.
Faccio finta di ricordare o forse qualcosa riaffiora veramente, ma lo sopprimo.
Inizia a parlarmi di non so quale avventura universitaria assieme.
E io annuisco, con una smorfia in bocca.
Deve anche aver fatto una qualche battuta, a sua detta, perché inizia a sganasciarsi.
A me vien da ridere soltanto del suo sguardo dietro le tre lenti degli occhiali.
Una delle due è spaccata a metà, uno squarcio netto come il colpo di una falce da fieno.
Rido e taccio.
Non sono certo io a doverglielo far notare.
Anche fosse per il solo gusto di continuare a ridere.
Ed invece rovina tutto :”ma cazzo, non mi dici neanche che giro con gli occhiali rotti?”
No che non te lo dico, dovrei rovinarmi il divertimento?
E poi penso tu te ne sia già accorto da te.
“Sono 2 giorni che giro con ‘sti occhiali spaccati, porca…”
“Bel coglione” mi scappa. Anche se quella era l’opzione 2.
L’opzione 1 era : finta comprensione mista ad ipocrisia.
Mi accendo la seconda sigaretta.

Strano come le persone cerchino continuamente conferme nelle proprie insicurezze.
Vogliono frammenti di verità sbattuti in faccia per potersi sentire orgogliosi nel rispondere alla banalità della vita di tutti i giorni.
La verità-vera li spiazza, li rende vulnerabili.
Se hai gli occhiali rotti, lo sai già da te. Non ti servono conferme.
Tu ce li hai rotti da 2 giorni.

E’ la verità che spiazza, alle bugie siamo abituati.

All’Appuntamento mancano 15 minuti e noi siamo in mezzo ad una strada, lanciando segnali di fumo con il radiatore.
Qui viene subito da pensare alla solita gag dei tre amici cui si ferma la macchina per strada, aprono il cofano dal quale esce fumo bianco, si rimboccano le maniche e dopo pochi minuti hanno grasso di motore ovunque.
Beh, non fatevi illusioni.
E’ andata proprio così.

Non sapendo minimamente dove mettere le mani, confido nella pratica meccanica di Finocchio che in gioventù ha lavorato all’interno di un’officina.

Sdraiandomi sul sedile posteriore della mia Punto verde bottiglia ora non faccio che pensare all’Appuntamento, una di quelle cose da cui non puoi esimerti.
E’ troppo importante, i ricordi sono troppo importanti.
Eppure lasciano sempre qualcosa di incompiuto.
I ricordi in realtà sono uno di quei processi psichici, che molti imputano ad una qualche divinità superiore e che servono esclusivamente a far soffrire.
I brutti ricordi vorremmo tutti cancellarli e soppiantarli con qualcos’altro.
Tutte le situazioni in cui hai commesso un errore, una scelta sbagliata. Ricordarle serve solo a far riemergere il rimpianto di avere o non aver fatto.
I bei ricordi si vorrebbero cancellare perché irripetibili.
Ripeterseli in testa all’infinito riesce soltanto a darti l’idea di impotenza e di quanto essi stessi, prima o poi verranno offuscati da altri.
Come il ricordo di un programma televisivo o di una pubblicità di patatine che prendono il posto di una giornata al lago. Con un libro, delle sigarette ed aria. Non smog.

I ricordi dilaniano.
Addormentarsi in macchina invece rende nervosi.

La Punto riparte.
E dal finestrino vola via il cliché del ragazzo omosessuale incapace con gli attrezzi.

Luca sembra essersi tagliato con qualcosa.
Non avendo in macchina del succo di pomodoro credo che quello sia sangue.
I lamenti supportano la tesi.
La camicia di Luca è chiazzata di rosso e Francesco Maria lo sta curando, chiedendomi aiuto.
“Il taglio non sembra profondo, ma quella camicia fa veramente schifo”, poi salgo davanti.
Mi accendo la terza sigaretta.

Durante il tratto che ci manca Francesco Maria inizia a parlare con Luca del suo amore idilliaco.
Ha trovato la persona giusta, con gli interessi giusti e frequenta le persone giuste.
L’ha incontrato in un Pub per single un mese prima.
Quello gli ha raccontato di essere un avvocato e di aver trovato in lui l’amore mai incontrato, quello che ti fugge via come un pugno di sabbia o come un rasoio sulle vene.

Ma Finocchio non ha mai visto il suo studio e non è mai stato a casa sua.
Non si sono passati l’un l’altro i rispettivi spazzolini.
Non si sono neanche mai scambiati di mutande.
Perché non è pronto.
E mi accendo la quarta sigaretta.

Neanche Annalisa si sentiva pronta.
Ha preso la mia anima e l’ha spappolata come la testa di un bue, lasciandone la carcassa.
Ne ho sentito l’odore anche a distanza di mesi, l’ho perfino cercata qualche volta.
Ho vagato per giorni.
Passare dall’abitudine alla solitudine ti annulla.
Ho provato a ritrovarla in qualche ricordo sparso, ma quando sei abituato ad avere una persona accanto non pensi mai a mettere qualcosa in un cassetto.
Un feticcio.
Un ricordo.
Non ti viene naturale pensare di dover ricordare una persona, quando ce l’hai.
E’ lì, perché ricordarla.

Quando poi non c’è provi ad aggrapparti alla tela intricata che hai in testa.
Ma neanche quella ti aiuta.
Quando sei abituato ad avere accanto una persona, pensi ad altro.

Quel che mi rimane ora è solo la sua assenza.
La solitudine cammina su di un filo che separa, tenendoli assieme, l’atteggiamento da una forma di aspirazione divina.
Giocare a fare Dio per sentirsi artefici delle proprie insicurezze e magari cavalcare la morte.

Arriviamo in Piazza Garibaldi ed inizio a distendermi.
Il vigile ci informa che avremmo dovuto parcheggiare qualche centinaio di metri prima, lì è tutto chiuso.

Il centinaio di metri sono in realtà 2 chilometri.
Ed io mi accendo la quinta sigaretta, pensando ancora una volta alla promessa di smettere, fatta qualche decina di pacchetti fa.

Passiamo per vicoli e stradine in cui gli unici rumori che si sentono sono i nostri passi e le televisioni a tutto volume di qualche anziana.
Riesco a distinguere programmi di cucina e di opinione. Insalata di arance con uvetta sultanina mista a consigli su come parlare con i figli. Consigli su come affrontare l’anoressia, la malattia del nostro secolo.
Mamme e figli davanti allo schermo a farsi spiegare come si fa la mamma e come si fa il figlio.
Modelle con taglia 36 spiegano perché è sbagliata l’anoressia, dall’alto del loro calendario di fine anno.
Ascoltiamo telegiornali condotti dai politici e ci auto-convinciamo che sia informazione.
Tubocatodico-dipendenti.
Cervello-addormentati.
Imbonitore-schiavizzati.

All’Appuntamento mi sarei aspettato ressa, lacrime e manipoli di gente con fiori e striscioni.
Saranno state 20 persone.

“Siamo arrivati, che emozione..” confida Luca.
Annuisco per abitudine e penso che in posti del genere dovrebbero metterci un cesso.

Dall’altare piovono già anatemi e fiotti d’incenso, mentre tutt’intorno il silenzio è palpabile quasi quanto l’indifferenza degli astanti.

L’uomo grasso e canuto appena disceso dall’altare, controlla l’ora mormorando qualche parola incomprensibile. E questa è solo una delle fortune.
L’altra è che possiamo sederci dove vogliamo.
Io punto l’angolo più vicino alla porta.
Luca il più vicino all’altare.
Francesco Maria, attacca a piangere in mezzo alla navata centrale.
Gli porgo un fazzoletto di stoffa da ben 20 euro e so già che non lo rivedrò più.

Raggiungiamo Luca che è già in ginocchio girandosi tra le dita un rosario, improvvisamente comparso dal nulla.
Io mi siedo, pensando che una sala fumatori non sarebbe una cattiva idea.

Francesco Maria e Luca continuano la sceneggiata ed inizia il momento del Ricordo, quello con la R maiuscola.
Là davanti l’uomo grasso inizia a ripercorrere i versetti di testi sacri con l’aggiunta di uno “Stefano” di tanto in tanto, ma senza esagerare.
Pur non avvezzo a cose di questo genere, credo di aver sentito le stesse menate altre 4 o 5 volte.
Che poi corrispondono a tutti i miei nonni più uno zio.
Stesse parole, non cambia neanche la punteggiatura.
Cambiano l’uomo grasso ed il nome “Stefano”, o “Giovanni” o “Giuseppe” con cui viene condito il tutto. Per poi servirlo caldo, con una spruzzata di aromi naturali al gusto d’incenso.

Non cambia neanche il chiacchiericcio che proviene dai banchi.
Vecchie signore vestite di nero, o blu scuro per gli eventi più mondani, che parlano di uncinetto, dei disgraziati figli altrui o dei peccati commessi dal protagonista dell’Appuntamento.
Loro parlano mentre qui c’è gente che soffre.
Luca e Francesco Maria si scambiano il fazzoletto, il mio, singhiozzando.
Raccontandosi aneddoti. Raccontandosi di com’era bello, di come si stava bene, delle risate.
Che bei momenti.
Io penso a come ci sia veramente bisogno di una sala fumatori in questo posto.

I ricordi dilaniano.
La fitta tela nella nostra testa se non riesce ad ucciderti, ti incastra nel tuo stesso passato.
E vivere nel passato è come guardare uno di quei filmini 8mm, col tempo annoia e sbiadisce.
Vivere nel passato serve a farti dimenticare di quanto difficile sia il presente.
Per non parlare del futuro.

Mentre Luca e Francesco Maria sono presi dalla commemorazione e le vecchiette da tutt’altro, io ascolto l’uomo grasso.
Parla di come siamo tutti peccatori, di quanto siamo piccoli davanti alla maestosa potenza divina.
Di come dovremmo ogni giorno ringraziare il creatore. Che non avremo scampo.
Le vecchine parlottano, Luca e Finocchio ridono.
Siamo destinati alla sofferenza perché è Dio a volerlo.
Destinati a soffrire perché abbiamo peccato anche senza volerlo.
Le vecchine ridono, Luca e Finocchio si scambiano i numeri di cellulare.
Pregate e chiedete ogni giorno perdono.
Pregate e chiedete ogni giorno clemenza.
Pregate o verrete abbandonati all’Inferno.
Luca e Finocchio mandano un sms, le vecchine parlano di cos’è successo l’altro giorno in centro.
Io ne ho abbastanza ed esco a fumare, sentendomi un peccatore.

Rientro, pensando di nuovo all’assenza di un cesso.
Quando qualcuno o qualcosa mancano, non fai altro che pensare alla loro assenza.

E penso anche all’assenza del resto della classe.
Di per sé non mi stupisce.
Anche se Luca riesce ad arrivare ad un livello di rottura di coglioni che fa desistere anche il più inamovibile. Il che non è il mio caso, beninteso.
Strano quindi non li abbia avvertiti in massa.

Mi siedo di nuovo.
Finocchio e Luca inviano ancora sms, ridendo, mentre le vecchine parlano di un giovane settantottenne. L’uomo grasso sta ora bevendo vino dal calice, in espiazione.

Finocchio e Luca guardano fissi l’altare, le vecchine parlano ancora del settantottenne.
Io mi chiedo se Dio scelga personalmente i portavoce della sua parola.

Finocchio e Luca mi chiedono che ore siano. Faccio cenno che l’unico a sapere l’ora qua dentro è l’uomo grasso, a quanto pare. Le vecchine vanno a ritroso nella vita del settantottenne. L’uomo grasso controlla l’ora, ma la tiene per sé.
Io inizio a pensare che se Cristo tornasse sulla Terra, e se ne guarderebbe bene visto come l’hanno trattato l’ultima volta, prenderebbe a calci nei coglioni qualcuno dei suoi portavoce.

Luca e Finocchio si tengono per mano, le vecchine sputtanano il settantottenne.
L’uomo grasso inizia le fasi conclusive del monologo.

Poi un dubbio.
Distolgo Luca dalle effusioni e gli chiedo dove abbia visto l’annuncio dell’Appuntamento.
“Sui necrologi”

Chiedo a Luca se sotto il nome nell’annuncio abbia guardato l’età del defunto.
Sguardo intelligente. La messa finisce. Le vecchine se ne vanno.
“No”

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WTF?

Giornalista, web designer e pubblicitario. Da blog di protesta negli anni in cui i blog andavano di moda, questo spazio è diventato col tempo uno spazio di riflessione e condivisione. Per continuare a porsi le giuste domande ed informare se stessi.