Dove sono finite le parole?
di SKA su La dimanche des crabes il 7 Febbraio 2015
Scrivere.
Scrivere.
Quand’è che ho rinunciato a quella costante presenza nel mondo? Le parole scritte sono sempre state come ossigeno, farne a meno equivarrebbe a morire. Eppure. Eppure. Eppure ho smesso, ho lasciato scorrere via le parole in favore di qualcos’altro. Qualcosa che si chiama lavoro, responsabilità, preoccupazioni, ansie. E non è vero che esista la scrittura terapeutica: se stai male, non riesci neanche a pensare. Figuriamoci a scrivere.
Quella che credevo potesse – dovesse – restare l’unica costante, l’unico porto sicuro a cui aggrapparsi, mi è scivolato via lentamente dalle dita. Il malessere può essere – lo è sempre stato – un viatico naturale per sprofondare con penna e calamaio (virtuali) dentro l’abisso della propria coscienza. Scendere fino in fondo per risalire con quello scrigno di emergenze che lo scrittore talvolta non sapeva neanche di avere. O sì, ma non ha ancora affinato gli strumenti per farlo. Per risalire da quel baratro c’è bisogno di caparbia, di tenacia, di tremenda solitudine, di metodo, di dedizione. TEMPO.
Tutto è legato a doppio filo.
Non ho chiuso nessun capitolo dei romanzi iniziati negli anni. Non ho scritto le decine di racconti che ho abbozzato in decine di taccuini. Non ho praticamente più fatto neanche il giornalista. Neanche più il blogger. Le vette più alte arrivano dagli headline ed i body copy di quelle rarissime campagne pubblicitarie che mi passano tra le mani. Poi il nulla.
Il periodare complesso mi sembra essere diventato uno scoglio insormontabile; la punteggiatura arranca e non so più bene quando mettere virgole, punti fermi e punti e virgola. Forse dovrei finire l’ultimo di Houellebecq per re-imparare come si fa. Mi sembra di balbettare e singhiozzare tra le parole senza avere più la capacità di esprimere un concetto di senso compiuto, interrompendomi ogni volta al margine del significato.
Dove sono finite le parole?
Le ho regalate a quella parte di me stesso che ha deciso di non giocarci più, lasciandole in un angolo buio della casa a prendere polvere.
Come un giocattolo vecchio al quale siamo così tanto affezionati che non vorremmo buttare mai, ma con il quale non ci divertiamo più.
P.s. un’interessante lettura sulla solitudine come veicolo per la creatività e la produttività.
Going Solo: The Extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone