Giorgia Meloni e il paradosso della “Presidenta”
di SKA su Notizie Commentate il 21 Novembre 2024
La gaffe e il paradosso della propaganda
Durante un recente intervento, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato con orgoglio che, sotto il suo governo, il tasso di occupazione femminile ha raggiunto livelli record. Ma, in un lapsus, ha invece affermato che il “tasso di disoccupazione femminile è il più alto di sempre”, scatenando una valanga di critiche e ironie. Non soddisfatta, ha introdotto la dichiarazione lanciando una frecciata a quelle che ha definito “femministe che pensano che la parità si faccia facendosi chiamare presidenta”. Un’affermazione che merita di essere scomposta e analizzata, sia per la sua infondatezza che per le implicazioni culturali e politiche che rivela.
La bufala della “presidenta”: come nasce e perché è falsa
L’idea che il termine “presidenta” sia un cavallo di battaglia del femminismo è, in realtà, una bufala. Nessuna associazione femminista seria, né alcun individuo dotato di buon senso, ha mai promosso l’uso di questa parola. L’origine di questa narrazione risale a un articolo pubblicato da Il Giornale nel 2020, che attribuiva alle “femministe radicali” la proposta di declinare in chiave femminile ruoli istituzionali come “presidenta” o “assessora” (Il Giornale, 10 marzo 2020). Da allora, questa invenzione ha trovato fertile terreno nella propaganda di Fratelli d’Italia, che continua a usarla come simbolo di una presunta crociata contro il femminismo.
La contraddizione diventa evidente quando si considera che lo stesso partito ha sostenuto e celebrato l’elezione della prima donna Presidente del Consiglio in Italia. Un esempio lampante di come la retorica sia spesso scollegata dai fatti.
Perché “presidenta” è un errore grammaticale
Chi si erge a paladino della lingua italiana, come spesso fanno i rappresentanti di Fratelli d’Italia, dovrebbe conoscere le regole di base della grammatica. I nomi in -ente, che derivano dal participio presente latino, sono invariabili nel genere. Per questo motivo, parole come “presidente”, “dirigente” o “insegnante” sono valide sia al maschile che al femminile. Modificare questa regola coniando termini come “presidenta” non è un atto di emancipazione linguistica, ma un semplice errore grammaticale.
Eppure, è curioso notare come la destra italiana, che si vanta di difendere le radici e la purezza della lingua, utilizzi un termine scorretto per attaccare il femminismo. Una contraddizione che rispecchia la superficialità con cui vengono affrontati temi ben più complessi.
Il reale tasso di occupazione e disoccupazione femminile in Italia
Le dichiarazioni di Giorgia Meloni sul tasso di disoccupazione femminile si scontrano con una realtà complessa e stratificata, che richiede una lettura approfondita dei dati per essere compresa appieno. Secondo l’ISTAT, il tasso di occupazione femminile in Italia nel 2024 si attesta al 52,4%, in crescita rispetto al 49,4% del 2020, ma ancora ben distante dalla media europea del 68%. Parallelamente, il tasso di disoccupazione femminile è al 10,7%, un miglioramento rispetto al 12% del 2014, ma rimane tra i più alti nell’Unione Europea, dove la media si attesta intorno al 6,5%.
Questi numeri raccontano una storia di progressi lenti e discontinui. Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha faticato a colmare il divario occupazionale tra uomini e donne. Per confronto, nel 2024 il tasso di occupazione maschile in Italia è del 67%, con una differenza di quasi 15 punti percentuali rispetto a quello femminile. Questo divario, noto come gender employment gap, è uno dei più ampi in Europa, riflettendo non solo problemi strutturali, ma anche una persistente disuguaglianza di genere nel mondo del lavoro.
A livello regionale, emergono ulteriori disparità: nel Nord Italia il tasso di occupazione femminile supera il 60%, avvicinandosi ai livelli europei, mentre nel Sud scende drammaticamente sotto il 40%, evidenziando una frattura geografica che si sovrappone a quella di genere. Ad esempio, in regioni come la Campania e la Calabria, meno di una donna su tre ha un impiego regolare, aggravando la condizione economica e sociale di intere aree del Paese.
Ma come si colloca l’Italia rispetto agli altri Paesi europei? Secondo i dati di Eurostat, l’Italia è penultima per occupazione femminile, superando solo la Grecia. Al contrario, Paesi come la Svezia e la Danimarca vantano tassi di occupazione femminile superiori all’80%, grazie a politiche di welfare avanzate, un accesso diffuso ai servizi di cura per l’infanzia e una maggiore flessibilità lavorativa. Anche Stati con economie più comparabili a quella italiana, come la Spagna e il Portogallo, mostrano tassi di occupazione femminile superiori al 60%, dimostrando che il divario italiano non è inevitabile, ma frutto di scelte politiche e culturali.
Un altro aspetto cruciale è la qualità dell’occupazione femminile. Molte donne in Italia sono impiegate in lavori precari, part-time o mal retribuiti. Secondo l’INPS, oltre il 37% delle donne occupate lavora con contratti a tempo parziale, spesso non per scelta, ma per necessità, a causa di un sistema di welfare che non supporta adeguatamente la conciliazione tra lavoro e vita familiare. Inoltre, le donne continuano a essere sotto-rappresentate nei settori ad alta crescita, come la tecnologia e l’innovazione, e sovra-rappresentate in settori a bassa retribuzione, come l’assistenza e il commercio al dettaglio.
Il quadro si complica ulteriormente se si considerano le implicazioni sociali della disoccupazione femminile. In Italia, una donna disoccupata ha maggiori probabilità rispetto a un uomo di rinunciare definitivamente alla ricerca di lavoro, entrando nella categoria degli inattivi, ovvero coloro che non lavorano né cercano attivamente un’occupazione. Questo fenomeno, legato alla mancanza di prospettive e al peso sproporzionato delle responsabilità familiari sulle donne, contribuisce a perpetuare il ciclo della disuguaglianza economica.
Infine, è importante notare che l’Italia è ancora lontana dal raggiungere gli obiettivi europei in materia di occupazione femminile. Il programma “Europe 2020” aveva fissato un obiettivo del 75% di occupazione per uomini e donne entro il 2020. Sebbene molti Stati membri si siano avvicinati a questo traguardo, l’Italia rimane indietro, sollevando interrogativi sull’efficacia delle politiche messe in atto.
I dati dipingono un quadro in cui i progressi nell’occupazione femminile ci sono stati, ma sono insufficienti per chiudere il divario con il resto d’Europa. Le dichiarazioni di Meloni, oltre a contenere un evidente lapsus, mettono in luce un problema che richiederebbe risposte concrete e investimenti strutturali, piuttosto che slogan o retoriche propagandistiche.
Il paradosso di Giorgia Meloni e il femminismo
Giorgia Meloni, nel suo rifiuto del femminismo, sembra ignorare come molte delle conquiste che hanno reso possibile la sua carriera e la sua vita personale siano il risultato diretto di lotte femministe e di movimenti per i diritti civili. Le sue posizioni, che dipingono il femminismo come un’ideologia divisiva e superflua, non tengono conto di quanto le battaglie per la parità di genere abbiano trasformato la società italiana ed europea negli ultimi decenni.
Uno dei benefici più evidenti di cui Meloni ha goduto è il diritto all’istruzione e alla carriera. Non è passato molto tempo da quando le donne in Italia erano escluse dai livelli più alti del sistema educativo e dalle professioni politiche. È solo grazie alle lotte di figure come Nilde Iotti, prima donna a presiedere la Camera dei Deputati, che oggi Meloni può non solo partecipare, ma eccellere in un ambiente che per secoli ha escluso le donne.
In ambito familiare, Meloni ha potuto scegliere di essere madre senza essere sposata, una possibilità che deve molto al cambiamento culturale e legislativo promosso dai movimenti femministi. Negli anni ’70, in Italia, una donna non sposata che avesse un figlio sarebbe stata stigmatizzata e discriminata, non solo socialmente, ma anche legalmente. L’eliminazione di concetti arcaici come quello di “figlio illegittimo” e l’introduzione di tutele per le madri single sono state conquiste fondamentali. Meloni beneficia oggi di una società che ha normalizzato queste situazioni, permettendole di essere giudicata per le sue capacità politiche piuttosto che per il suo stato civile.
Sul piano lavorativo, Meloni ha avuto accesso a diritti che una volta erano inimmaginabili per una donna. L’uguaglianza salariale, anche se ancora lontana dall’essere raggiunta, è un obiettivo che deve la sua esistenza alle lotte femministe. Le leggi contro le discriminazioni di genere sul lavoro, l’introduzione delle quote rosa nei partiti politici e le tutele per la maternità sono tutte misure che hanno aperto le porte a donne come Meloni. Il fatto che oggi possa guidare un partito e ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio è il risultato di decenni di battaglie per superare gli ostacoli che impedivano alle donne di accedere al potere.
Anche la stessa libertà di espressione di cui Meloni fa ampio uso per criticare il femminismo è, in un certo senso, il frutto di un lavoro culturale portato avanti dai movimenti progressisti. Il diritto di esprimere opinioni pubbliche senza essere ostracizzata, anche quando queste sono controverse, è stato guadagnato attraverso una progressiva liberalizzazione della società e il riconoscimento dell’autonomia delle donne come individui.
Infine, il contesto internazionale non può essere ignorato. Molte delle tutele e dei diritti di cui oggi gode Meloni derivano da convenzioni europee e internazionali, come la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, o le direttive europee sulla parità di genere. Questi strumenti sono stati spesso il risultato di pressioni esercitate da movimenti femministi su scala globale.
Il paradosso è evidente: Meloni critica un movimento che, di fatto, ha costruito le basi che le hanno permesso di raggiungere le sue ambizioni personali e professionali. Le sue posizioni antitetiche rispetto al femminismo non solo contraddicono il suo vissuto, ma rischiano anche di minare il progresso futuro per altre donne, che potrebbero non avere le stesse opportunità in una società meno attenta alla parità di genere.
Un’(altra) occasione mancata
La gaffe di Giorgia Meloni sul tasso di disoccupazione femminile è più di un semplice lapsus. Rappresenta un simbolo di come la retorica possa prevalere sui fatti, di come la propaganda possa stravolgere i termini di un dibattito cruciale per il futuro del Paese. Invece di usare il suo ruolo per affrontare seriamente le disuguaglianze di genere, Meloni sceglie di attaccare un femminismo che, ironicamente, è il motore del suo stesso successo.
In un’Italia che ancora fatica a raggiungere la parità, ci sarebbe bisogno di un leader che trasformi le parole in azioni, che riconosca il debito nei confronti delle battaglie passate e che lavori per un futuro più equo. Ma, per farlo, occorrerebbe abbandonare la propaganda e affrontare la realtà con umiltà e competenza.