La Convenzione Balneare (non scritta) del Semi-Nudo: ovvero perché in spiaggia possiamo parlare in mutande senza sentirci folli, e altrove no

di SKA su Cultura il 19 Agosto 2025

Esiste, ogni estate, una sospensione tacita delle leggi non scritte del decoro sociale: la grande tregua tessile. All’improvviso individui che per undici mesi si parlano schermati da lane pettinate, denim, viscose e status symbol vari, passano ad argomentare di geopolitica, ristoranti e rette scolastiche indossando tre triangoli di lycra e una cordicella. La cosa strabiliante non è solo che succeda, ma che nessuno—voglio dire nessuno dotato di un minimo di metacognizione—trovi strano che un vicino di ombrellone che conosci appena ti chieda “tutto bene?” mentre tu, tecnicamente, sei in mutande. È come se ad agosto entrassimo in una zona franca normativa, una free-trade area della pelle, in cui il corpo è ampiamente esposto ma socialmente “non visto”.

Se volessimo togliere poesia alla faccenda (che è sempre una tentazione pericolosa, ma utile), potremmo chiamarla ridefinizione situata della norma. Erving Goffman lo direbbe meglio: la società funziona perché nelle interazioni quotidiane co-costruiamo una “definizione della situazione” che stabilisce che cosa vada considerato normale, tollerabile o scandaloso (Goffman, 1959). In spiaggia, il copione condiviso riscrive il codice d’abbigliamento e, con esso, il grado di attenzione morale dovuto al corpo altrui: nudo/semivestito passa da segnale di intimità a semplice “equipaggiamento ambientale”.

A livello antropologico, Mary Douglas ci ha lasciato una formula d’acciaio: “lo sporco è materia fuori posto” (Douglas, 1966). Trasposto: lo scandalo è carne fuori contesto. La stessa pelle che in ufficio (o su un tram affollato di novembre) sarebbe “fuori posto”, in spiaggia torna ad essere banalissima geografia umana. La lycra—che fuori contesto è lingerie—diventa uniforme funzionale. E con l’uniforme cambiano aspettative, posture, sguardi, semiologie micro-muscolari. Norbert Elias, smontando l’idea che esistano “naturali” soglie di pudore, mostrava come il senso di vergogna sia un dispositivo storico di autoregolazione dei corpi (Elias, 2000/1939). Che cosa sia “vergognoso” dipende dal luogo, dal tempo, dalla sceneggiatura culturale: l’arenile di agosto è, in questo senso, un istituto stagionale di desensibilizzazione.

Sociologicamente la cosa interessante non è la quantità di pelle esposta, ma la convenzione percettiva che la rende socialmente opaca. È la stessa logica per cui non “guardiamo” davvero i corpi negli spogliatoi della palestra: li vediamo senza accreditarli. La spiaggia però aggiunge una torsione ironica: qui la conversazione continua come se nulla fosse, anzi spesso grazie al fatto che nulla ostacola il sole, l’acqua, l’aria, cioè i tre elementi su cui si fonda l’alleanza sociale del litorale.

Fin qui l’ironia. Ma sotto scorre una dinamica psicologica assai meno frivola. Uno degli studi più citati sulle relazioni tra abbigliamento e stati mentali—e che in agosto vale doppio—è il celebre esperimento “That Swimsuit Becomes You” (Fredrickson et al., 1998). Ai partecipanti veniva chiesto di provare un costume da bagno o un maglione; poi, tra le altre cose, di svolgere un test di matematica. Risultato: le donne in costume mostravano un calo di performance e un aumento dell’auto-oggettivazione (monitoraggio costante del proprio corpo come oggetto di sguardo), fenomeno accompagnato da maggiore vergogna corporea e, in alcune condizioni, da condotte alimentari più restrittive. Traduzione per la spiaggia: anche quando la norma dice che è tutto ok, il corpo nudo/seminudo non smette di essere un campo di forze psichiche, soprattutto per chi, strutturalmente, patisce il peso dello sguardo sociale. Non è un caso che, nella stessa tradizione di studi, la teoria dell’auto-oggettivazione suggerisca che l’esposizione del corpo può drenare risorse cognitive perché una parte della mente resta impegnata in un audit continuo del sé corporeo (Fredrickson & Roberts, 1997; Fredrickson et al., 1998).

Che la “divisa” cambi la mente, del resto, è anche la tesi—speculare—dell’enclothed cognition: indossare determinati capi modifica in modo misurabile l’attenzione, la postura mentale, persino la disinibizione comportamentale (Adam & Galinsky, 2012). Un camice bianco attribuito a un medico migliora la vigilanza; un abito formale aumenta il pensiero astratto. Il costume, per estensione ragionata, alleggerisce alcune inibizioni e ne accende altre: rende plausibile la conversazione informale con sconosciuti e insieme accresce—in molti corpi—la micro-ansia da esposizione.

Il livello culturale aggiunge un altro strato. La studiosa Ruth Barcan, in una monumentale anatomia del nudo, ricorda che la nudità non è mai “naturale”, ma sempre culturalmente mediata: il nudo è un dispositivo semantico che può significare libertà, vulnerabilità, protesta, erotismo, igiene, a seconda del contesto (Barcan, 2004). In spiaggia, il codice dominante tende a depoliticizzare il nudo, trasformandolo in “funzionalità ricreativa”. Ma la depoliticizzazione non è neutra: regola chi può stare a suo agio e chi no. Sharon Hayes e altri hanno mostrato in diverse ricerche come genere, età, classe e razza intersechino l’esperienza dell’esposizione corporea in spazi pubblici: chi è percepito come “appropriato” in costume e chi come eccessivo, indecente, out of place (cfr. Entwistle, 2000; Barcan, 2004). Il patto balneare è dunque inclusivo nella forma, selettivo nella pratica.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che il mare è eccezione proprio perché funzionale: si nuota, si suda, ci si asciuga, e l’abbigliamento segue la funzione. Vero. Ma la funzione non spiega da sola la serenità con cui—sotto l’ombrellone—si negoziano prossimi appuntamenti di lavoro o si impartiscono, con tono professionale, feedback a una collega al telefono, mentre i polpacci sono ancora spolverati di sabbia. Qui Goffman torna utile: in spiaggia spostiamo la linea tra frontstage e backstage (Goffman, 1959). Portiamo in scena frammenti di noi—la chiacchiera di networking, la negoziazione educativa coi figli—che altrove lasceremmo dietro le quinte. Questo slittamento di palcoscenico funziona perché il costume da bagno costringe tutti a una vulnerabilità simmetrica: la pelle esposta è una piccola, cooperativa dichiarazione di interdipendenza—“siamo tutti ridicolmente umani qui”—che riduce la distanza sociale e autorizza un lessico relazionale più poroso.

Naturalmente la simmetria è parziale. L’esperimento di Fredrickson e colleghe ci ricorda che l’asimmetria di genere non evapora nella brezza marina (1998). E studi affini mostrano che anche minime variazioni di copertura possono alterare imputazione di competenza e agency (Bernard et al., 2012). In breve: il patto del semi-nudo non livella, ma ri-distribuisce vulnerabilità e potere.

L’ironia, qui, è che la spiaggia funge da laboratorio morale in cui viene testata—per qualche settimana—una antropologia meno ansiosa del corpo. Se fossimo cinici, potremmo dire che si tratta di una versione beta della società che molti dicono di volere: più relaxed, meno performativa, più “onesta” nel mostrare i limiti. Ma la beta dura quanto agosto. Poi, a settembre, il costume viene riposto in un cassetto, e con esso la licenza relazionale che autorizza la prossimità franca tra sconosciuti. Riemerge l’inverno di Elias: disciplina dei corpi, rialzo dei colli delle camicie, ricostituzione delle barriere simboliche.

Che farcene, allora, di questa piccola epifania balneare? Primo: riconoscere che non è ipocrisia ma plasticità normativa—una prova generale di come i contesti riscrivano le regole del pudore e dell’attenzione. Secondo: ammettere che l’uguaglianza “alla luce del sole” non cancella le disuguaglianze (genere, età, classe) che pesano sul modo in cui quel sole ci attraversa. Terzo: chiederci se alcune delle libertà sociali dell’arenile non siano esportabili, almeno in parte, nella città vestita—non la nudità, ma l’idea che una vulnerabilità reciproca (anche simbolica) faciliti conversazioni più oneste.

Se sembra una preghiera laica, lo è. Perché ciò che chiamiamo “decenza” è spesso solo l’abitudine della tribù. E ogni tanto conviene ricordare che, biologicamente parlando, il nostro default è la pelle. Il resto sono addobbi, bellissimi, necessari, talvolta oppressivi. L’estate ci ricorda che potremmo, per un tratto di costa e di tempo, allentare le cinture dell’anima. Poi torniamo a chiuderle. Ma almeno sapendo che la fibbia—come ogni convenzione—l’abbiamo inventata noi.

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Giornalista, web designer e pubblicitario. Da blog di protesta negli anni in cui i blog andavano di moda, questo spazio è diventato col tempo uno spazio di riflessione e condivisione. Per continuare a porsi le giuste domande ed informare se stessi.