Referendum 8-9 giugno 2025: guida ai cinque quesiti su lavoro e cittadinanza

di SKA su ControInformazione il 10 Maggio 2025

Referendum 8-9 giugno 2025

Perché si vota

L’8 e 9 giugno gli elettori italiani troveranno in cabina cinque schede. Non eleggeranno parlamentari né sindaci: dovranno dire o No alla cancellazione di altrettante norme oggi in vigore. Quattro riguardano il mercato del lavoro – tutte figlie o derivate del Jobs Act del 2015 – e sono state promosse dalla CGIL, che ha raccolto oltre quattro milioni di firme. Il quinto interviene sulla cittadinanza e porta la firma di +Europa con una rete di associazioni civiche.

Il referendum è abrogativo (art. 75 Cost.): vince la maggioranza dei voti validi, ma conta anche il quorum – deve andare alle urne almeno il 50 % + 1 degli aventi diritto. Dopo il via libera della Corte costituzionale (20 gennaio 2025) e i decreti di indizione pubblicati in «Gazzetta Ufficiale» n. 75/2025, la data è stata fissata all’ultima tornata utile prima dell’estate.

Che cos’è il referendum dell’8-9 giugno

  • Che tipo di voto? Si tratta di cinque referendum abrogativi (art. 75 Cost.). Ogni scheda propone di cancellare – del tutto o in parte – una norma oggi in vigore.
  • Quando si vota? Domenica 8 giugno (7-23) e lunedì 9 giugno (7-15). Serve il quorum: deve recarsi alle urne almeno il 50 % + 1 degli aventi diritto.
  • Chi li ha promossi?
    • Quesito 5 (cittadinanza) – raccolta firme guidata da +Europa (Riccardo Magi) con Possibile, PSI, Radicali, Rifondazione, molte associazioni (637 000 firme).
    • Quesiti 1-4 (lavoro) – promossi dalla CGIL (oltre 4 milioni di firme).
  • Perché adesso? Il 20 gennaio 2025 la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili i cinque quesiti (ha bocciato invece il referendum sull’autonomia differenziata). Con decreti del Presidente della Repubblica 31 marzo 2025, pubblicati in «G.U.» n. 75/2025, è stata fissata la data dell’8-9 giugno.
  • Di che cosa parlano?
    • 1-4 – licenziamenti illegittimi, indennità nelle piccole imprese, contratti a termine, responsabilità negli appalti (tutti punti toccati dal Jobs Act 2015).
    • 5 – tempi per chiedere la cittadinanza italiana.

Quesito per quesito: che cosa si vota, che cosa succede se vince il “Sì” o il “No”

 

Quesito 1 – Abolizione delle tutele crescenti nei licenziamenti illegittimi

Norma nel mirino: art. 3 d.lgs. 23/2015 (Jobs Act) che, per i lavoratori assunti dal 2015, sostituisce la reintegrazione con un’indennità economica crescente in base all’anzianità.

  • Se voti “Sì” (abroghi) → cade il regime delle tutele crescenti; per i licenziamenti senza giusta causa tornerebbe la reintegrazione (o l’indennizzo senza tetto minimo/massimo) come prima del Jobs Act, anche per chi è stato assunto dopo il 2015.

  • Se voti “No” (mantieni) → resta l’attuale modello: niente reintegra automatica, indennità monetaria da 3 a 24 mensilità.

Fronti in campo Argomenti
Favorevoli al “Sì”
CGIL, opposizioni di sinistra (PD–Alleanza Verdi/Sinistra), sindacati di base
«Il Jobs Act ha depotenziato il reintegro: occorre tornare a un sistema di garanzie forti per scoraggiare i licenziamenti arbitrari».
Contrari (voto “No”)
Confindustria, centro-destra (FdI, Lega, FI), gran parte delle associazioni d’impresa
«Ripristinare la reintegra automatica aumenterebbe l’incertezza giuridica e frenerebbe gli investimenti; l’indennità monetaria è già un deterrente sufficiente».

 

Quesito 2 – Licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti

Norma nel mirino: art. 9 d.lgs. 23/2015 che fissa un tetto (max 6 mensilità) all’indennizzo nelle piccole aziende.

  • “Sì” → il tetto verrebbe eliminato; il giudice potrebbe stabilire liberamente l’indennità, come avviene nelle imprese più grandi. Giudice libero di fissare l’indennizzo, senza massimale “mini-azienda”.

  • “No” → rimane il massimale di 6 mensilità.

Fronti in campo Argomenti
Favorevoli al “Sì”
CGIL, piccoli sindacati, associazioni di giuslavoristi
«Il tetto di 6 mensilità crea lavoratori di “serie B”. Stessa tutela per tutti, a prescindere dalla dimensione aziendale».
Contrari
Confartigianato, CNA, centro-destra
«Costi imprevedibili metterebbero a rischio la sopravvivenza di migliaia di micro-imprese. Necessario un limite per evitare risarcimenti sproporzionati».

 

Quesito 3 – Contratti a termine (durata massima, proroghe, causali)

Norme nel mirino: art. 21 d.lgs. 81/2015 e modifiche successive, che consentono contratti senza causale fino a 12 mesi e proroghe fino a 24.

  • “Sì” → si abroga la disciplina “flessibile” del Jobs Act: tornerebbe l’obbligo di indicare una causale fin dall’inizio e si ridurrebbero le proroghe possibili.

  • “No” → resta la disciplina odierna (contratto a termine “acausale” fino a 12 mesi, prorogabile entro 24).

Fronti in campo Argomenti
Favorevoli al “Sì”
CGIL, sinistra parlamentare, associazioni precari
«L’acausalità favorisce precarietà cronica. Tornare alle causali riduce l’abuso di contratti-ponte e incentiva assunzioni stabili».
Contrari
Confcommercio, turismo, Lega e FI
«Il mercato richiede flessibilità. Nuovi vincoli sulle causali renderebbero più difficile assumere nei settori stagionali e nei servizi».

 

Quesito 4 – Responsabilità solidale negli appalti per infortuni sul lavoro

Norma nel mirino: art. 26 comma 4, d.lgs. 81/2008 (come modificato dal 2009) che esclude la responsabilità solidale del committente per i danni da “rischi specifici” dell’appaltatore.

  • “Sì” → si reintroduce la responsabilità solidale: il committente risponderebbe insieme all’appaltatore per gli infortuni sul cantiere.

  • “No” → rimane l’esclusione: il committente non è responsabile per quei danni.

Fronti in campo Argomenti
Favorevoli al “Sì”
Sindacati confederali (unitariamente), M5S, associazioni per la sicurezza sul lavoro
«Il committente deve rispondere degli infortuni: solo così investe davvero in prevenzione e sceglie appaltatori affidabili».
Contrari
ANCE (costruttori), FdI, Lega
«La responsabilità oggi è già dell’appaltatore diretto; estenderla al committente creerebbe contenziosi a cascata e costi extra, scoraggiando grandi opere».

 

Quesito 5 – Cittadinanza italiana: da 10 a 5 anni di residenza

Norma nel mirino: art. 9 lett. f, legge 91/1992 (10 anni di residenza legale per i non-UE).

  • “Sì” → la soglia scenderebbe a 5 anni, dimezzando l’attesa per chiedere la cittadinanza.

  • “No” → resta l’attuale requisito di 10 anni.

Fronti in campo Argomenti
Favorevoli al “Sì”
+Europa, PD, AVS, molte Ong (ASGI, Arci), parte del M5S
«Cinque anni sono uno standard europeo. Chi vive, lavora e paga le tasse in Italia deve poter diventare cittadino in tempi ragionevoli».
Contrari (voto “No”)
Lega, FdI, parte di FI, movimenti identitari
«La cittadinanza non è un premio a punti: accelerare i tempi incoraggerebbe flussi migratori eccessivi e indebolirebbe l’integrazione reale».

Da 10 a 5 anni: cosa significa davvero per ottenere la cittadinanza italiana?

Ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana non significa che la cittadinanza verrebbe concessa automaticamente dopo quel tempo. La modifica proposta dal referendum interviene solo su uno dei requisiti preliminari: la durata della residenza legale e continuativa in Italia per i cittadini non appartenenti all’Unione Europea.

Oggi, per presentare domanda, è necessario:

  1. Essere residenti legalmente in Italia da almeno 10 anni, senza interruzioni.

  2. Disporre di un reddito minimo (per il richiedente singolo, circa 8.500 euro l’anno negli ultimi 3 anni, valore aggiornabile).

  3. Avere la fedina penale pulita (assenza di condanne penali gravi o comportamenti socialmente pericolosi).

  4. Dimostrare integrazione linguistica e sociale, inclusa la conoscenza della lingua italiana almeno a livello B1 (dal 2018).

Se vince il SÌ, l’unico cambiamento riguarda il requisito temporale: si potrebbe fare domanda dopo 5 anni anziché 10. Tutti gli altri requisiti – reddito, condotta, conoscenza linguistica – rimarrebbero invariati.

È bene chiarire: la cittadinanza resta un atto discrezionale dello Stato, con tempi di valutazione spesso lunghi (fino a 24 mesi, prorogabili a 36), e non si traduce in un diritto automatico. Ma abbassare la soglia temporale significa anticipare l’accesso al percorso di richiesta, con effetti concreti per decine di migliaia di persone già integrate nella società italiana.

 

Chi sta con il SÌ e chi con il NO

Quesito Favorevoli al “Sì” Contrari (“No”) Nodi del dibattito
1 – Tutele crescenti CGIL, PD, AVS, sindacati di base Confindustria, FdI, Lega, FI Reinserire la reintegrazione scoraggerebbe licenziamenti abusivi vs creerebbe incertezza per le imprese
2 – Tetto indennità micro-aziende CGIL, giuslavoristi progressisti Confartigianato, CNA, centro-destra “Stesso diritto per tutti” vs rischio di costi imprevedibili che colpiscono le piccole realtà
3 – Contratti a termine CGIL, opposizioni sinistra, reti precari Confcommercio, settori turismo, Lega, FI Stop alla precarietà “a rotazione” vs flessibilità indispensabile per lavori stagionali
4 – Responsabilità appalti Sindacati confederali, M5S, associazioni vittime lavoro ANCE, FdI, Lega Più prevenzione e selezione in sicurezza vs oneri e contenziosi per chi appalta
5 – Cittadinanza 5 anni +Europa, PD, AVS, molte ONG, parte M5S Lega, FdI, parte FI Standard europeo e inclusione vs timore di “facilitare” flussi eccessivi

Come si vota in pratica

  1. Ricevi cinque schede (una per quesito).

  2. Per abrogare la norma: croce sul .

  3. Per mantenere la norma: croce sul No.

  4. Scheda nulla se lasciata in bianco o segnata in modo non valido.

Il significato politico

I quattro quesiti sul Jobs Act chiedono di redistribuire rischi e tutele: reintegra per licenziamenti senza giusta causa, indennizzi adeguati anche nelle micro-aziende, causali obbligatorie per i contratti a termine e responsabilità in solido negli appalti. Sullo sfondo: precarietà diffusa e recrudescenza degli infortuni, che hanno riproposto il tema di “chi paga” quando qualcosa va storto.

Il quinto quesito, pur diverso per materia, parla la stessa lingua: inclusione. Ridurre a cinque anni il requisito di residenza significa passare da una logica di attesa decennale a quella – più europea – di diritti effettivi per chi già contribuisce alla collettività.

Chi difende le norme esistenti evoca la flessibilità (per le imprese) e la prudenza (sulle naturalizzazioni). Chi vuole abrogarle ribatte con un’idea di welfare attivo: più certezze ai lavoratori, più sicurezza nei cantieri, percorsi di cittadinanza meno arbitrari.

Un referendum che parla di lavoro, diritti e comunità

Il doppio filo che unisce i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza è la tutela delle persone dentro trasformazioni economiche veloci.

  • Sul versante Jobs Act, chi sostiene il SÌ non propone nostalgie novecentesche, ma chiede di riequilibrare un mercato che dal 2015 ha spostato il rischio d’impresa sui lavoratori: meno reintegro, più contratti a termine, minori responsabilità per la “catena” degli appalti.

  • Sul versante cittadinanza, tagliare l’attesa a 5 anni significa riconoscere come “membri a pieno titolo” centinaia di migliaia di persone che già studiano, lavorano, pagano le imposte in Italia.

Chi teme costi o “invasioni” invoca la flessibilità produttiva e la difesa dell’identità nazionale; chi spinge per il SÌ richiama l’idea che un’economia solida e un tessuto sociale coeso nascono da diritti certi e inclusione, non dalla precarietà permanente o da cittadini di serie B.

Il referendum dell’8-9 giugno è meno tecnico di quanto sembri: è un test sul modello sociale italiano. Da un lato c’è la visione per cui competitività significa margini di libertà ampia per il datore di lavoro e tempi lunghi per chi chiede di diventare cittadino. Dall’altro, l’idea che l’economia funzioni meglio quando il rischio è condiviso e i diritti riconosciuti a chi ne è parte da anni. 

Qualunque sia l’esito, il referendum interroga il Paese su quale modello di welfare e di cittadinanza intenda adottare nei prossimi anni: un modello che redistribuisce rischi e opportunità, oppure uno che lascia lavoratrici, lavoratori e nuovi italiani in una zona grigia di garanzie minime. Votare o No significa scegliere quanto spazio dare, nel prossimo futuro, alla tutela del lavoro e del welfare inclusivo. Ma la prima scelta sarà andare alle urne: senza quorum, il dibattito resterà lettera morta.

Per saperne di più: i testi completi dei decreti di indizione pubblicati in «Gazzetta Ufficiale» n. 75/2025; il comunicato della Corte costituzionale (20 gennaio 2025) con la decisione di ammissibilità; le schede di sintesi del Ministero dell’Interno e il portale della CGIL dedicato ai quesiti sul lavoro. Per un’analisi tecnica, si vedano il dossier del Servizio Studi della Camera e la nota breve del Senato; il Dipartimento Affari Giuridici di Palazzo Chigi riunisce ulteriori materiali ufficiali. Commenti specialistici sono disponibili sul sito dell’Associazione Nazionale Giuslavoristi Italiani (quesiti lavoro) e dell’ASGI (quesito cittadinanza).

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WTF?

Giornalista, web designer e pubblicitario. Da blog di protesta negli anni in cui i blog andavano di moda, questo spazio è diventato col tempo uno spazio di riflessione e condivisione. Per continuare a porsi le giuste domande ed informare se stessi.