La scomparsa di Gaza
di SKA su ControInformazione il 31 Maggio 2025
Accendo lo schermo—sempre quel rettangolo LED—e le breaking news si ostinano a chiamarla “campagna militare”, “operazione antiterrorismo”, “fase dell’offensiva”. Il lessico gira in tondo come un cane che non vuole pronunciare la parola che morde. Genocidio. Sarebbe tecnicamente il termine più aderente: distruzione sistematica di un popolo, sia per azione diretta (bombe, proiettili, fuoco d’artiglieria) sia per azione indiretta (assedio, fame, impossibilità di cure). Ma nominarlo significherebbe oltrepassare la soglia retorica e scoprire carte che molte capitali non intendono scoprire, perché “genocidio” obbliga a scegliere da che parte della storia stare.
È il 2025 e mi sono perso a contare quante volte abbiamo detto “fase finale” del conflitto israelopalestinese; intanto le fasi si moltiplicano come matrioske, ognuna più piccola —o più claustrofobica — dell’altra.
Osservo da qui, un salotto pieno di oggetti che non smettono di promettermi connessione: router, smartphone, smartwatch che vibra notizie su “raffiche di droni IDF” o “colpi di mortaio a Netivot”. E mi domando se non ci sia qualcosa di perverso, quasi pornografico, in questa nostra immediatezza globale: guardare in 4K la demolizione simultanea di retrobotteghe a Khan Younis e di certezze morali a Boston o Torino; poi alzarmi, stiracchiarmi, premere Mute e aprire l’app di meditazione consapevole.
Da ottobre 2023 – l’attacco di Hamas ai kibbutz, migliaia di israeliani massacrati o presi in ostaggio – la parola è rimasta sospesa. Le cancellerie che pure conoscono la Convenzione ONU del ’48 fanno funambolismo semantico: “proporzionalità”, “danni collaterali”, “crisi umanitaria”. Intanto Gaza, dalla spiaggia di Beit Lahia ai tunnel sotto Rafah, è diventata un diagramma vivente dell’articolo II della Convenzione: omicidi di membri del gruppo, attentati alla loro integrità fisica, imposizione di condizioni di vita intese a provocarli distruzione fisica. Tradotto: ospedali sigillati senza carburante, interi quartieri rasi mentre i civili sono chiusi dentro come in una fornace a cielo aperto, neonati in incubatrice lasciati morire quando il generatore smette. Se questa non è un’“imposizione deliberata di condizioni di vita intese a distruggere”, forse abbiamo ricablato le definizioni per convenienza geopolitica.
Il 2025 ha portato l’ultima contabilità OCHA: oltre cinquantaquattromila morti, ottantadue per cento della popolazione sfollata più volte, acqua pulita scesa a due litri pro capite al giorno (OMS ne raccomanda cinquanta). I numeri però—già l’ho detto— corrodono l’empatia: superata una soglia, diventano paesaggio. Eppure basta avvicinare la lente su un singolo caso per far saltare la corazza statistica. In aprile un pediatra norvegese rimasto a Gaza City twitta la fotografia di un pigiama rosa: “Apparteneva a Haya, sei mesi, nessuna famiglia sopravvissuta; lascio qui perché qualcuno sappia che esisteva”. È genocidio “pixel-level”: frammento che interrompe lo scrolling automatico e costringe a un millisecondo di coscienza.
La gente a ovest del fuso CET ama discettare sull’“alienazione” palestinese, come se fosse concetto importabile in valigia accanto a un duty-free d’arak. Alienazione in Gaza significa svegliarsi dentro una gabbia di 365 km² collegata al resto del pianeta solo tramite un flusso di dati che ti racconta esattamente quanto il mondo sa di te e quanto poco può (o vuole) cambiare la tua condizione. Nel lessico popolare di quest’era di streaming, il termine è doomscrolling. A Gaza il doomscrolling non è passatempo ma topografia: scorrere verso l’alto, scorrere verso il basso—è sempre macerie.
Ciò che rende tutto più mostruoso è la sensazione che il piano B non esista. Israele, rattrappito nella psicosi post-7 ottobre, ha sostituito l’idea di sicurezza con quella di cancellazione dell’avversario. La comunità internazionale ricicla formule di pace come software obsoleto—Oslo, Road Map, Annapolis—mentre il suolo sotto la Striscia viene letteralmente ridisegnato a crateri. Dentro questo vuoto di alternative, la sparizione fisica del popolo palestinese si staglia non come esito estremo ma come default silenzioso e, a forza di essere ignorato, quasi normale.
Il maggio 2025 sforna una tregua di sessanta giorni: suona come uno scherzo cosmico, uno spinterogeno che dovrebbe far ripartire la macchina arrugginita della pace. Tutti firmano con la mano sinistra, l’altra incerta sul grilletto. Qui, davanti allo schermo, mi accorgo di provare un sentiment mischiato: un 30 % di cinismo lucido (non funzionerà), 40 % di vergogna per la rapidità con cui lo penso, 30 % di ostinata volontà di sperare nella fisiologia imprevista dei miracoli.
Forse la domanda non è chi vince, chi perde—questo è linguaggio calcistico al quale siamo abituati —ma che cosa succede alle coscienze quando la guerra diventa ambiente, non più evento. Uno studioso che lessi anni fa definì la soluzione dei due Stati “cartografia sentimentale”: un diagramma d’amore tossico, sempre evocato come nostalgia di un futuro che non avviene mai. La verità bruciante è che, finché le infrastrutture emotive di israeliani e palestinesi si modelleranno sul trauma reciproco, ogni mappa politica nascerà già sbagliata.
E tuttavia: se genocidio è l’intenzione combinata alla prassi, riconoscerlo implica la possibilità di fermarlo. Significa chiamare le cose con il loro nome e far crollare la zona grigia dove prosperano le ambiguità diplomatiche. Significa che chi ha potere di veto nei consigli di sicurezza non può più rifugiarsi dietro eufemismi. Significa concedere al popolo palestinese—almeno—lo statuto di vittime in atto, non di danni collaterali futuri.
Perché altrimenti lo schermo continuerà a proporci un mondo in cui la cancellazione di due milioni di persone procede a passo regolare, mentre noi discutiamo di “de-escalation” come se fosse un aggiornamento di sistema rinviabile al prossimo riavvio. Nel frattempo, a Khan Yunis, qualcuno raccoglie le chiavi arrugginite di una casa che non esiste più, non perché sia stata venduta o abbandonata, ma perché l’idea stessa di un domani in cui aprire quella porta è stata bombardata insieme ai muri. Se ancora lasciamo che la parola genocidio resti non detta, diventeremo bravi, tutti, a considerare quella chiave un reperto archeologico di un popolo che—semplicemente—non c’è più.